Si sente spesso dire che lo sport è di tutti ma è davvero così?
Sono tanti gli ostacoli che si frappongono tra il voler praticare un’attività sportiva e il riuscire a farlo davvero. Tra le difficoltà che si possono incontrare abbiamo problemi di natura logistica. Spesso le strutture, specie quando abitiamo lontani dalle grandi città, non ci sono o si trovano a chilometri di distanza. Abbiamo poi le numerose difficoltà ad accedere ai servizi per i costi che si fanno sempre più insostenibili per le tasche della famiglie. Ma, soprattutto, c’è una fetta di popolazione che vive sulla sua pelle queste difficoltà in maniera ancora maggiore: le persone e gli atleti con disabilità, sia essa intellettiva o fisica.
I passi avanti fatti negli ultimi anni nella direzione di una sempre maggior inclusione sono stati significativi.
Pensiamo al campionato di calcio di Quarta Categoria dedicato agli atleti con disabilità intellettiva e patologie psichiatriche e organizzato dalla FIGC nella sua Divisione Calcio Paralimpico e Sperimentale a partire dal 2016. Al suo avvio era limitato alla sola Lombardia, oggi, invece, conta una sezione praticamente in ogni regione d’Italia. Tuttavia la strada è ancora lunga.
Con il suo inserimento ufficiale in Costituzione, il diritto allo sport diventa un tema ancora più saliente: lo Stato deve farsi carico di garantire tale diritto a tutta la popolazione.
Sono tantissimi gli studi che possiamo trovare in letteratura scientifica sull’importanza della pratica sportiva come strumento di benessere socio-relazionale e psicofisico. Oggi non diciamo niente di nuovo se sottolineiamo i numerosi benefici che lo sport ci dona a livello di salute fisica e mentale. Ma quanto è difficile traslare questi aspetti e costruire dei progetti pensati (anche) per atleti con disabilità che possano dare gli stessi frutti?
Sappiamo che la partecipazione regolare alle attività sportive è associata a una migliore qualità e soddisfazione di vita e permette anche un reinserimento nella comunità, un senso di aggregazione che ci fa percepire come parte di un qualcosa. Quello che ancora manca è studiare il fenomeno e capire che soluzioni si possono trovare per facilitare la partecipazione e rompere le barriere sociali, economiche e di stigma verso le persone con disabilità. Abbattere queste barriere è uno dei capisaldi del pensiero di tutto il team Whanau.
Il 2024 è stato l’anno dei Giochi Olimpici, seguiti a stretto giro di posta anche dai meno celebrati Giochi Paralimpici. Molto interessante è stato il modo in cui il Comitato Paralimpico Internazionale ha scelto di raccontare gli atleti impegnati nelle varie discipline, specie via social. L’obiettivo è quello di cambiare il paradigma corrente.
Quando ci imbattiamo in atleti con disabilità spesso si aprono due strade. Possiamo pensare a quanto siamo fortunati a non essere in una situazione del genere, pensiero però che ci espone a un senso di colpa. Oppure pensiamo agli atleti paralimpici come a degli eroi con dei veri e propri superpoteri. I primi a essere stanchi di questo modo di raccontarsi sono gli atleti stessi.
Lo stile ironico adottato dal Comitato Paralimpico nelle sue campagne social ha suscitato molte reazioni. Questo ha permesso agli atleti di essere visti con occhi diversi, avvicinandoli a noi. Perché in primis, al di là delle loro disabilità fisiche o intellettive, dobbiamo pensare a loro davvero come atleti, esattamente come i colleghi olimpici, capaci di performance agonistiche uniche.
Sebbene sembri una frase fatta, le differenze esistono e dobbiamo imparare sempre di più a vederle come un arricchimento e non come una mera suddivisione in categorie. Lo sport, nella sua accezione migliore, può essere veicolo di cambiamento e può spingerci tutti verso una maggiore e migliore inclusione. Sfruttiamone questo enorme potenziale.